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Successi e insuccessi tra le piattaforme streaming

di Andrea Fornasiero | 01.12.2020

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È stato un anno vulcanico per lo streaming, con il lancio di diverse nuove piattaforme, che hanno concretizzato la trasformazione dei network tradizionali ormai sempre più affacciati al mondo online; con l’impennata degli utenti, dovuta in gran parte alla vita forzatamente domestica in era di coronavirus; e con il rapidissimo fallimento di Quibi, che era nato scommettendo sulla mobilità ma è arrivato quando ormai già ci si muoveva pochissimo, sempre per il virus di cui sopra.

Partiamo proprio da qui, perché è stato sicuramente il caso più esplosivo, con due miliardi di dollari di investimenti raccolti ancora prima di partire e poi bruciati quasi interamente nel giro di pochi mesi, nonostante il coinvolgimento di diversi nomi di Hollywood. L’annunciato progetto horror di Spielberg, che avrebbe dovuto avvalersi della possibilità di Quibi di conoscere l’ora del giorno e che quindi si sarebbe dovuto vedere solo in periodo notturno, per esempio, non si è mai concretizzato, forse perché la vecchia volpe aveva già fiutato la possibilità del tracollo e ha aspettato prima di tuffarsi in questa avventura.

A differenza per esempio di Steven Soderbergh, sempre affascinato dalle sfide tecnologiche, che ha prodotto uno dei suoi titoli più innovativi proprio per Quibi, destinato ora all’oblio o comunque a non essere più fruito come previsto dai suoi autori. Parliamo di Wireless un “movie in chapter” con Tye Sheridan che, attraverso la tecnologia Turnstyle di Quibi (dove è possibile passare dalla fruizione verticale a quella orizzontale semplicemente girando il telefono o il tabler), esiste su un doppio canale: si può seguire la storia dal punto di vista soggettivo dello smartphone, guardando solo attraverso la sua telecamera, oppure dal punto di vista “oggettivo” del cinema a cui siamo abituati. Wireless era essenzialmente una doppia breve miniserie shortformat, che esiste contemporaneamente in due versioni un po’ come nei paradossi della fisica quantistica. Un progetto che Soderbergh ha prodotto per la regia di Zach Wechter, ma che non è bastato a rendere Quibi quel che una volta si diceva “Must See Television”.

Probabilmente il problema di Quibi non è stato solo nel formato dei suoi contenuti per un pubblico prosciugato dal coronavirus, ma anche nell’idea stessa che quel pubblico esistesse davvero, disposto a pagare per vedere ritagli di film mentre è in coda alla posta anziché guardare Tik Tok o video brevi su YouTube o semplicemente controllare le mail e chiacchierare sui social. Pure la qualità dei contenuti però, più o meno sul livello spesso da “Tv Movie” di Netflix, non ha aiutato e le operazioni innovative come Wireless sono arrivate troppo tardi e ormai senza energia propulsiva promozionale. A Hollywood ci hanno sperato in molti, anche per il nome di Katzenberg, ma alla fine rivedranno ben poco del capitale investito.

Se l’outsider della corsa all’oro dello streaming è finito nella polvere, lo stesso non si può dire degli altri contendenti, che anzi si sono trovati travolti da un interesse quasi eccessivo del pubblico a causa della quarantena. Per rispondere hanno dovuto accelerare sui propri piani in modo anche drastico, come ha fatto Disney con una ristrutturazione interna dove la divisione cinematografica non pensa più per prima cosa al cinema – il che è davvero rivoluzionario per uno Studio che ha mantenuto un controllo di ferro sulle visione televisive dei suoi classici per oltre cinquant’anni. Del resto anche a Disney sbagliano e un film come Artemis Fowl al cinema avrebbe incassato ben poco, invece è servito a dare almeno una piccola boccata d’aria fresca alla stasi in cui Disney+ si è trovata per buona parte dell’anno.

Il servizio infatti è partito benissimo come numero di abbonati ma qualsiasi abbonato non mancherà di commentare come sia arrivato ben poco di nuovo e significativo sulla piattaforma. Tanto che, per rimediare e per affrontare la pandemia, Hamilton – che invece al cinema avrebbe incassato benone in America – è andato direttamente sulla piattaforma, così come ha fatto Mulan e come farà il film Pixar Soul. Il caso di Mulan è stato tra i più discussi, perché da una parte ha fatto imbestialire gli esercenti, dall’altra ha fatto registrare dati contraddittori e da un’altra prospettiva ancora è stato un vero e proprio flop. Parliamo naturalmente degli incassi in Cina, dove non solo non ha sfondato ma è stato anche aspramente criticato per una messa in scena stereotipata dei tropi narrativi del wuxiapian, e in particolare per la descrizione del “chi” come una sorta di superpotere. Probabilmente i cinesi non avrebbero abbracciato a prescindere un prodotto americano che cercava di essere cinese e questo è stato un errore di valutazione di Disney, che invece immaginiamo troverà maggior successo con l’animazione di Raya, ambientato in una sorta di corrispettivo fantasy del Sud Est asiatico. Mulan, oltre a fallire in Cina, è stato diffuso in modalità PVOD su Disney+ (e successivamente anche su altre piattaforme), con risultati difficili da leggere.

Se da una parte la società di rilevazioni americana Nielsen dichiarava che, per la prima volta dal lancio in estate della top ten dei titoli più visti dello streaming, era stato spezzato il monopolio di Netflix, dall’altra è chiaro che l’operazione non verrà ritentata troppo presto… Non solo Soul sarà diffuso come un titolo normale di Disney+, ma i film Marvel vengono fatti slittare ormai in modo piuttosto drastico pur di evitare che finiscano sulla piattaforma: se l’esperimento di Mulan avresse funzionato alla grande probabilmente la stessa sorte sarebbe toccata a Black Widow, che invece uscirà al cinema – forse – dopo aver preso polvere per almeno un anno in un cassetto.

L’altro problema di Disney è che la già sonnolenta tabella di marcia della produzione di contenuti originali per la piattaforma è stata ulteriormente rallentata dal virus, così le serie Marvel che avrebbero dovuto debuttare tra fine estate e inizio autunno sono slittate all’inverno e alla fine – tolto il già citato Hamilton – il solo vero grande titolo di questo primo anno di attività è la seconda stagione di Mandalorian, a riprova che appunto in un anno non è arrivato quasi niente di rilevante. Questi errori comunque non paiono comunque aver paralizzato la crescita degli abbonamenti, tanto che già a inizio agosto i siti di spettacolo titolavano come Disney+ avesse superato quota 60 milioni, ossia l’obiettivo previsto per il primi quinquennio!

La società ha poi spinto sull’acceleratore su altri due fronti, oltre alla ristrutturazione delle produzioni: quello della diffusione internazionale con l’acquisto di Hotstar che si prevede si affiancherà a Disney+ anche in Europa, e quello più innovativo della visione condivisa. Hotstar dovrebbe fare per Asia (dove nasce il marchio) ed Europa quello che Hulu fa in America, ossia fornire un’offerta dai contenuti più adulti, che si potrà associare a Disney+ in un pacchetto di abbonamento. Inoltre sarà probabilmente Hotstar a investire in produzioni straniere, che per il brand Disney sono un oggetto relativamente estraneo. Con il lancio di GroupWatch poi Disney ha superato tutti gli altri contendenti nella visione condivisa, fornendo un sistema integrato alla piattaforma per vedere insieme ad amici vicini e lontani lo stesso contenuto contemporaneamente.

Nell’era della crisi del cinema e con una ancora lunga quarantena in corso, la visione condivisa potrebbe davvero essere la chiave per il futuro. Al momento però, avendolo provato, dobbiamo dire che non funziona benissimo nella fluidità di visione, dove fa registrare alcuni rallentamenti e vari pasticci se uno degli utenti mette in pausa. Inoltre la condivisione è per ora limitata allo scambio di emoji, insomma è molto meno interattiva di una qualsiasi diretta su YouTube, Facebook o Twitch. È noto che si tratta solo di una prima fase e arriverà presto una chat, ma la sfida di rendere la piattaforma in streaming quasi come un social è ancora lontana dalla vittoria.

Amazon a sua volta ha implementato innovazioni nel proprio servizio che ancora mancavano in Paesi che non fossero Stati Uniti, Inghilterra e Germania e forse pochi altri. In Italia e nel resto d’Europa sono quindi arrivati prima i contenuti TVOD, ossia noleggiabili per un periodo di tempo, e poi i canali di Amazon, che in pratica ospita delle library di terzi, con un abbonamento a parte ma integrato in quello del servizio Prime.

Queste library naturalmente non sono quelle americane, bensì si affidano ai distributori italiani ed europei, come RaroVideo e la linea Midnight Factory di Koch, ma includono anche un servizio Usa come Starzplay, che continua ad appoggiarsi ad altre piattaforme per offrire i propri contenuti. Chissà che in futuro non sbarchino in Italia in questo modo piattaforme da noi poco ancora assenti come CBS All Access, di cui per esempio è ancora inedita la nuova versione di Ai confini della realtà. Amazon ha anche visto una buona crescita di abbonati negli Usa, probabilmente dovuta al successo di The Boys – che è l’altro titolo non Netflix entrato nella top ten dei rilevamenti Nielsen.

Passando alle nuove piattaforme lanciate oltreoceano si segnalano HBO Max e Peacock: entrambe hanno fatto registrare buoni numeri di recente, ma sono numeri da prendere con le pinze. Peacock ha visto una crescita di abbonati di oltre il 17% nel terzo trimestre, arrivando a quasi a 22 milioni di utenti. Quanti di questi però ricevono gratis il servizio perché sono già subscriber dei servizi Comcast (ossia la proprietaria di Peacock), o perché si sono iscritti semplicemente alla versione con pubblicità? Difficile dirlo e la cancellazione appena annunciata della sola serie originale prodotta da Peacock, ossia Brave New World, non parla esattamente di un trionfo, d’altra parte la piattaforma può contare sull’NBA per sostenersi.

Riguardo Comcast va anche registrato il crescente investimento nelle produzioni europee con il lancio degli Sky Studios in un rafforzamento che investe sia Inghilterra sia Germania e Italia, dove ci si è posti l’obiettivo di realizzare una nuova serie originale al mese. Molte di queste produzioni finiscono però nell’area di HBO o perché sono da loro distribuite o perché sono da loro coprodotte, dunque l’integrazione verticale di Comcast, che in teoria di HBO è concorrente, sembra ancora di là da venire.

Il discorso è simile per HBO Max con quasi 29 milioni di abbonati, ma molti tra questi ricevono il servizio per via di AT&T (proprietaria di Warner) come Internet provider, o semplicemente perché erano già abbonati a HBO. Alcuni tra questi abbonati per altro non possono nemmeno vedere HBO Max, perché la piattaforma ancora non ha trovato un accordo con un servizio molto popolari in Usa come Roku, mentre con Amazon Fire TV si è arrivati a una soluzione solo a metà novembre.

Ultime nella corsa allo streaming, Viacom e Apple, dove la prima ha da poco finalmente annunciato come chiamerà la propria piattaforma di là da venire, che ingloberà CBS All Access: Paramount + (viva la fantasia).

La seconda che ha fatto registrare un ottimo trimestre per la vendita dei Mac e degli iPad mentre la piattaforma streaming sembra languire con una sempre più lenta produzione di contenuti. Netflix invece continua la propria crescita, ma dopo un periodo davvero esplosivo non ha raggiunto gli obiettivi previsti per il terzo trimestre e ha subito un leggero calo in borsa. Solo un’incidente di percorso o l’inizio di una frenata? Con i suoi quasi 200 milioni di abbonati, Netflix si sta avvicinando al proprio picco? Probabilmente non ancora, ma sembra fisiologico che il costo ormai non più economico e la concorrenza inizino a farsi sentire.