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Internazionalizzare fa bene all’Italia (e all’Europa)

di Massimo Scaglioni | 18.04.2019

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Negli ultimi mesi l’industria audiovisiva americana ha imposto un ritmo convulso a una serie di processi di trasformazione già avviati negli anni, che siamo abituati ad etichettare con espressioni come “integrazione”, “convergenza”, “globalizzazione”. Non possiamo certo ignorare quanto questo finirà per avere un impatto diretto sul nostro scenario mediale, che, anzi, sta già cambiando: la progressiva espansione di Netflix (140 milioni di sottoscrittori) e gli investimenti miliardari in contenuti (con un progressivo ampliamento dallo scripted all’unscripted, terreno privilegiato dei vari broadcaster nazionali), l’acquisizione di 21 Century Fox da parte di Disney e l’annunciato sbarco di quest’ultima sul mercato direct to consumer col servizio di streaming Disney+, l’approdo di Sky Europe nell’orbita dell’americana Comcast e i nuovi progetti di convergenza fra contenuti e telecomunicazioni (già realtà nel Regno Unito). E potremmo proseguire con AT&T/Warner, Amazon (sempre più impegnata a diversificare il proprio business in direzione dell’entertainment) e ovviamente il gigante Apple…

E l’Europa? E, soprattutto, l’Italia? Possiamo ancora permetterci, qui sul Vecchio Continente, di ragionare nei termini di “piccoli” mercati nazionali e di player dalle dimensioni irrilevanti, in uno scenario di forte frammentazione? La risposta è ovviamente negativa, e quasi un secolo di predominio hollywoodiano nel settore cinematografico non fa che rinforzare la nostra convinzione sulla necessità di pensare diversamente il nostro futuro. Negli ultimi tempi “integrazione” e “internazionalizzazione” sono state parole chiave anche per l’Europa, più sul piano di chi produce contenuti che su quello di chi li distribuisce. Il mercato dell’intrattenimento e dell’unscripted è sempre più interconnesso, tanto per via dell’emergere delle mega-indies (Endemol Shine, Banijay, All3media…) quanto per la rilevanza (e il valore economico) della circolazione di format e contenuti sempre più globali.

L’internazionalizzazione ha riguardato, più recentemente, una serie di attori di medie dimensioni attivi nella produzione scripted, soprattutto in Italia, che si sono distinti anche fuori dai confini con prodotti dal forte appeal sui mercati più diversi: Wildside (The Young Pope/The New Pope, L’amica geniale, Il Miracolo) è entrata nell’orbita Fremantle; ITV Studios ha acquisito il 51% di Cattleya (Romanzo Criminale, Gomorra, Suburra); Federation Entertainment ha legato a sé Fabula (Baby), e infine Mediawan ha acquistato il 72% di Palomar (Il Commissario Montalbano, Il nome della rosa).

Basta dare un rapido sguardo ai titoli delle serie televisive appena citate per comprendere il circolo virtuoso che l’industria della produzione nazionale ha saputo innescare nell’ultima decade: accanto alla tradizionale fiction, linguaggi e modalità realizzative meno “domestiche” e più aperte al mondo hanno generato attenzione tanto per i prodotti quanto per i produttori. Grazie agli investimenti di distributori e broadcaster free e pay, e più recentemente (e timidamente) delle OTT, le “storie nazionali” hanno generato un nuovo Rinascimento della serialità made in Italy, un fenomeno in qualche modo simile a quello che il Nordic noir ha saputo creare solo qualche anno fa.

Si tratta certo di un punto di partenza, ma la strada sembra incoraggiante per più motivi. Soprattutto se il “Rinascimento del made in Italy seriale” è messo in relazione a una più generale Renaissance del contenuto scripted europeo. Da quanto emerge da una ricerca del CeRTA (Università Cattolica), ancora in corso di elaborazione, i cinque principali mercati europei (Gran Bretagna, Francia, Italia, Spagna e Germania) hanno visto crescere in modo assai rilevante non solo il numero di titoli prodotti ogni anno, ma anche la capacità dei prodotti di circolare fuori dai confini nazionali. Questa tendenza è soprattutto il frutto degli investimenti in titoli “esportabili” da parte degli operatori pay (le piattaforme di streaming come Netflix possono ragionare solo in questi termini, ma il ruolo di Sky in Italia o Canal+ in Francia è stato essenziale), ma talvolta anche dei servizi pubblici (è il caso della Rai, con titoli come I Medici o i già citati L’amica geniale e Il nome della rosa). L’ “indice di circolazione” dei prodotti italiani pay risulta più elevato di quello di Francia e Gran Bretagna (anche se ovviamente il volume produttivo è più limitato), e naturalmente, nel solo 2018, abbiamo assistito al vero e proprio boom di Spagna e Germania.

Soggetti produttivi più forti e prodotti in grado di varcare i confini nazionali, anche grazie a investimenti più consistenti in contenuti di grande impatto: accanto alla tutt’ora prevalente produzione orientata al mercato domestico, è questa una linea da seguire, che può portare solo a risultati positivi, tanto per l’industria nazionale quanto certamente per il “sistema Paese” (e forse, anche, per la sua immagine).

Ci sono controindicazioni al processo di integrazione/internazionalizzazione della nostra industria dei contenuti? Nel mercato di beni immateriali – come è lo storytelling – in un mondo sempre più globalizzato, conteranno in maniera crescente due fattori dirimenti di successo: da un lato c’è la “scala”, ovvero l’opportunità di ampliare dimensioni e investimenti (generando, appunto, “economie di scala”). Dall’altro lato ci sono le IP, le “proprietà intellettuali” che sono all’origine degli stessi racconti. Basti ancora una volta riguardare l’elenco dei titoli citati per capire la loro rilevanza. La creatività italiana non ha nulla da invidiare a quella di altri Paesi, deve solo trovare le strade migliori (e le politiche più lungimiranti) per esprimersi.